“COME TI CHIAMI?”. “GIANCARLO”. “IO STELLA”

di Stella Cervasio

“Come ti chiami?”. “Giancarlo”. “Io Stella”.
Eravamo seduti a una fila di distanza nella sala delle riunioni sindacali dell’Ordine dei giornalisti. 1982, 83, 84, 85. Nell’82 mi laureai, mi ri-iscrissi subito all’Orientale, a Filosofia, la mania di non smettere di studiare mi è rimasta appiccicata addosso. Avrebbe significato quasi quattro anni ancora senza lavoro. “Vuoi fare la giornalista?” diceva mio padre, medico da generazioni, dirigente sanitario in un paese a pochi chilometri da dove Giancarlo, da napoletano, aveva avuto la “condotta”, la corrispondenza, il posto da seguire: lui Torre Annunziata, io Torre del Greco. Dove abitavo io la camorra c’era, c’è sempre stata, però era nascosta da attività come la navigazione e la lavorazione del corallo. Quando queste finirono, le cose cambiarono in peggio. Torre Annunziata a metà anni Ottanta, invece, aveva già perso la sua fonte di reddito: l’arte bianca, i pastifici. E i quartieri tremendi, i clan camorristici con nome e cognome erano già in pieno vigore. Mi girai e vidi alle mie spalle un ragazzo con gli occhiali, il naso un po’ pronunciato, gentile, parlammo del giornale che avevamo in comune, ma a cui non appartenevamo ancora o non saremmo appartenuti mai: il Mattino. Quel giornale commissionava qualche pezzo anche a me: avevo una rubrica “I Segni/ Science Fiction”, era il piede dell’inserto “Il Mattino del sabato”, e scrivevo in terza pagina in una redazione di geni, quello che ascoltavo a bocca aperta e quando finiva di parlare correvo a comprare tutti i libri che nominava era Francesco Durante. non ancora riserva naturale.

Sono del ’61, Giancarlo era del ’59. Io ero votata al bello, lui al vero. Quando al Pan mi ritrovo davanti la sua Mehari su una pedana, rivedo anche lui, in quel salone dell’Ordine, o per le scale della Casina del Boschetto, ora un rudere, un fantasma nella Villa Comunale, mentre allora era la casa di tutte le nostre speranze. Fare il giornalista a Napoli in quegli anni, subito dopo il terremoto, o era un fatto ereditario o dovevi votarti (o votare) a qualche santo, come mi disse un caporedattore. Nè Siani nè io eravamo figli d’arte, avevamo solo penna e taccuino e non sapevamo che nessuno ci avrebbe aiutati a varcare quella soglia che per molti era la stessa di un’astronave. Ci fu chi ci disse qualche parola, a Giancarlo e a me diede qualche buon consiglio: Ermanno Corsi, allora caporedattore alla Rai e corrispondente di Repubblica. Ci invitava alle riunioni del sindacato e ricordo Giancarlo con me in platea ogni volta che passava per Napoli Sergio Borsi, che aveva lavorato per il Popolo, per l’Ansa, per la Rai ed era segretario della Federazione Nazionale della Stampa e consigliere nazionale dell’Ordine. Speravamo che ci dicesse: “Fate così, e sarete assunti in un giornale”. Guardavamo con ansia chi il traguardo l’aveva raggiunto. Ci sembrava un’impresa immensa, mentre avevamo in tasca soltanto il tesserino verde di pubblicisti, con dentro gli sconti dell’Alitalia e della ferrovia, fare il giornalista era viaggiare e noi potevamo farlo più e meglio degli altri. Quando c’erano le elezioni dell’Ordine, guardavamo come bambini, ai quali passa una torta sotto il naso, i “professionisti”, quelli col tesserino amaranto: quanto erano diversi da noi, e come salutavano tutti, entrando da altre porte in altre stanze. Sembrava che il loro voto valesse molto più del nostro. E a sottolineare che appartenevamo a un’altra “famiglia”, c’era un collega anziano che si metteva sulla soglia, ogni volta, e con voce stentorea gridava: “Pubblicista?”. Rispondevamo timidi, abbassando solo la testa e osservando i professionisti che non ci degnavano di uno sguardo. Eppure a quella passione per tradurre in parole ciò che vedevamo, l’emozione provata nel trasmettere la realtà agli altri erano corroborati dall’amore per gli strumenti del mestiere e per chi li adoperava e ce li insegnava come passandoci un’eredità preziosa: la linotype, le mani scurite dall’inchiostro, pezzi e dagherrotipi tenuti insieme dallo spago, e più tardi la fotocomposizione, i tavoli retroilluminati, le immagini da “scontornare” con le forbici, roba che i maghi dei social e dei montaggi video non sanno neanche che cosa sia. La perdita maggiore è però un’altra “famiglia”, che Giancarlo Siani ebbe la fortuna come me di conoscere: quella dei “proti”, categoria di maestri di un’altra era, rudi e teneri, elitari e popolari insieme: i miei di Repubblica, capeggiati dal proto Enrico, che non c’è più e che mai dimenticherò, parlavano romanesco stretto, ma conoscevano l’italiano meglio di me e quando m’incaponii per tornare a Napoli mi fecero un titolo con scritto “Addio Stella, tanti tanti auguri” me lo stamparono su una striscia di carta fotografica, ancora lo conservo. I proti di Giancarlo parlavano napoletano, ma di sicuro anche loro gli restituirono l’affetto e la familiarità che ognuno di noi, ansioso di “entrare”, regalava ai suoi mentori, tutti nobili, giornalisti o poligrafici che fossero.

Gli anni passavano e volevamo crescere. La camorra sparava a Napoli e in provincia. La città per me era divisa tra la cultura e l’arte, tra Fabrizia Ramondino, le trine di Mimì Rea e la galleria di Lucio Amelio in piazza dei Martiri. Prendemmo tanti treni della Circumvesuviana, anche senza incontrarci, Giancarlo e io, viaggiando sulla stessa tratta. Io volevo dimenticare la provincia dove lui cercava di capire come stavano le cose di malavita. Lui per me era inconsapevolmente un modello, perché Eugenio Scalfari, quando arrivai a Repubblica come stagista, dopo la morte di Giancarlo Siani, mi salvò la vita proclamando in riunione di redazione: “Non si comincia dalla cultura, in un giornale, ma dalla cronaca”: ricordai tutto, rilessi i pezzi di Siani su Torre Annunziata, appresi un metodo, ma la cronaca non è mai stata il mio forte. Al Mattino nell’85 cambiò il direttore, Pasquale Nonno tolse l’autonomia alla redazione di cultura: ricordo un fondo di Gava in terza pagina, se non sbaglio, su Santa Caterina da Siena. Lo prendemmo come un brutto segno. E poco dopo Giancarlo venne ucciso. Sopra l’ascensore, all’ingresso della redazione comparve un cartello che proibiva l’entrata ai collaboratori, quelli senza “l’articolo 1”. Ricordo di aver sentito tuonare in televisione Miriam Mafai, unica presidente donna della Fnsi, contro quell’atto e contro il modo in cui i precari venivano trattati, in tutti i quotidiani. Anche oggi che i precari non ci sono più, perché è svanita anche solo la “speranza di entrare” che ci passavamo tra noi, come una parola d’ordine per un mondo fatato che non lo era, la mano di Giancarlo sullo schienale della sedia mi pare ancora di vederla. Aveva la semplicità e la speranza di un ragazzo che insegue un sogno. Oggi difficile da far capire a quelli della sua età, e anche per noi, quasi impossibile da ricordare.